Autore: mondolavoro

Irap non dovuta dal medico con due studi

Non è infrequente il caso del medico che esercita sia una attività in convenzione con il SSN in uno studio, avvalendosi di una segretaria, che una attività in forma privata (cioè in regime di non convenzione) in un altro studio.

Una tale situazione richiede di valutare l’eventuale sussistenza del requisito della autonoma organizzazione e la conseguente debenza dell’Irap.

Per quanto anche di recente affermato dalla Corte di Cassazione, occorre in proposito ricordare che:

  • il requisito della autonoma organizzazione ricorre quando il contribuente: a) sia sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione (vedasi la sentenza delle Sezioni Unite n. 9451/2016);
  • è irrilevante, per la sussistenza del requisito dell’autonoma organizzazione, l’avvalersi in modo non occasionale di un collaboratore con mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive (così sempre le Sezioni Unite nella sentenza n. 9451/2016);
  • è irrilevante, per la sussistenza del requisito dell’autonoma organizzazione, la proprietà e l’utilizzo di un immobile (vedasi, tra le altre, le ordinanze n. 15110 del 2009 e n. 23155 del 2010);
  • l’impiego di beni strumentali, anche se di valore consistente, non configura una autonoma organizzazione quando il capitale investito non vale a rappresentare un fattore aggiuntivo o moltiplicativo del valore rappresentato dalla mera attività intellettuale del professionista ma risulti ad essa asservito in quanto indispensabile all’attività medesima e come tale inidoneo ad assumere rilievo, quale fattore produttivo di reddito, distinguibile da quello rappresentato dalla stessa attività intellettuale e dalla professionalità del lavoratore autonomo (così l’ordinanza n. 17671 del 6.09.16).

Sulla base dei suddetti principi è del tutto evidente, innanzitutto, che, in assenza di beni strumentali eccedenti il minimo indispensabile e di collaboratori con mansioni di livello più elevato rispetto a quelle di segreteria o a quelle meramente esecutive, un medico non è soggetto ad Irap indipendentemente dal fatto che svolga la sua attività solo in convenzione con il SSN, solo in forma privata o in parte in convenzione e in parte in forma privata.

Per quanto poi concerne l’utilizzo di due studi per lo svolgimento dell’attività, anche alla luce dei principi espressi dalla Corte di Cassazione nella recente ordinanza n. 17671 (quali sopra ricordati), il capitale investito nei due studi (quando di dimensioni non eccedenti gli spazi necessari all’esercizio dell’attività) è inidoneo ad assumere rilievo per la sussistenza del requisito dell’autonoma organizzazione.

Tant’è che la stessa Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 2967 del 10.02.14, ha affermato che per un medico di base del SSN l’utilizzazione di due studi non comporta la sussistenza di una autonoma organizzazione, in quanto “costituisce soltanto uno strumento per il migliore (e più comodo per il pubblico) esercizio della attività professionale autonoma”.

Mettendo a sistema tutto quanto sopra, si giunge quindi alla conclusione che non è soggetto ad Irap il medico che svolge sia attività in convenzione con il SSN che attività in forma privata, con esercizio della prima attività in uno studio ed esercizio della seconda attività in altro studio; e ciò anche qualora si avvalga di un collaboratore con mansioni di segreteria (il che è stato riconosciuto anche dalla CTR Trieste nella recente sentenza n. 243/2016 del 31.08.16).

A margine si vuole fare anche una breve riflessione sulla quantificazione delle spese di lite nei contenziosi Irap dei medici.

Come noto i medici svolgono, di norma, attività esenti da Iva; il che preclude loro la detrazione dell’Iva assolta sugli acquisti (che diventa quindi un costo).

È pertanto da ritenere che, in caso di condanna alle spese di lite, l’Agenzia delle entrate sia tenuta a rifondere al medico vittorioso anche l’Iva (in particolare quella assolta sulle competenze del professionista che lo ha assistito).

Retribuzioni convenzionali a effetti limitati in ambito previdenziale

La Cassazione con la sentenza n. 17646 del 6 settembre scorso è intervenuta a dirimere l’annosa questione della utilizzabilità o meno delle c.d. “retribuzioni convenzionali” in ambito previdenziale anche in caso di distacco del lavoratore dipendente in Paesi previdenzialmente convenzionati con l’Italia.

La pronuncia è di particolare interesse, anche in considerazione del fatto che ribalta l’esito dei due gradi precedenti, favorevoli all’azienda distaccante.

Il tema più sentito è quello del distacco transnazionale dei dipendenti da parte di una società italiana presso una consociata estera localizzata in Paesi extraUE. In tali casi,  la L. 398/1987, in ottica di tutela del lavoratore e per evitare “buchi” nella contribuzione dello stesso, prevede espressamente che qualora con il Paese extracomunitario di assegnazione non vi sia una Convenzione previdenziale con l’Italia, i contributi debbano essere versati non solo nel Paese estero dove è svolta l’attività lavorativa (secondo il principio di carattere generale in cui ai fini contributivi vale la “lex loci laboris”) ma anche in Italia, seppur sulla base di una base imponibile forfettaria (oltre che aliquota ridotta), determinata appunto in ragione delle retribuzioni convenzionali che, dall’anno 2001, rappresentano anche la base imponibile generalizzata ai fini fiscali (indipendentemente cioè dal Paese in cui è svolta l’attività lavorativa) per coloro che lavorano all’estero in via continuativa ed esclusiva per più di 183 giorni nell’arco di dodici mesi (secondo quanto previsto dall’articolo 51, comma 8-bis, Tuir).

Ci si è chiesto pertanto quale fosse l’approccio più corretto qualora il dipendente venisse distaccato presso consociate estere con sede in Paesi extraUE con cui l’Italia ha stipulato una Convenzione ai fini previdenziali (come ad esempio gli Stati Uniti).

Nella prassi operativa vi era chi riteneva che anche in questo caso ai fini previdenziali dovesse trovare applicazione la base imponibile rappresentata dalle retribuzioni convenzionali in ossequio al principio della equiparazione della base imponibile previdenziale a quella fiscale e chi invece riteneva che L. 398/1987 in tal caso non operasse e dunque andava utilizzato il criterio ordinario della retribuzione effettiva.

Quest’ultima tesi è stata sposata dalla Cassazione, secondo cui in primo luogo la Legge delega 662/1996, in base alla quale l’equiparazione della definizione di reddito di lavoro dipendente ai fini fiscali e previdenziali doveva comunque essere operata “ove possibile”, non è tale da determinare la natura recettizia del rinvio alle disposizioni del Tuir ai fini previdenziali, occorrendo esaminare la compatibilità con il sistema previdenziale delle modifiche di volta in volta introdotte ai fini fiscali.

Nel caso di specie la Corte esclude la compatibilità del comma 8 bis dell’articolo 51 del Tuir con il sistema previdenziale per una serie di ragioni, per la verità non tutte condivisibili.

In particolare, desta qualche perplessità il fatto che secondo la Cassazione, tale comma, aggiunto all’articolo 48 del Tuir (poi 51) a tre anni di distanza dall’esercizio della delega finalizzata ad avvicinare gli imponibili a fini fiscali e previdenziali, è stato dettato con esplicito riferimento alla materia fiscale, in quanto il discrimine temporale dei 183 giorni che introduce è legato al concetto di residenza fiscale delle persone fisiche ai sensi dell’articolo 2, comma 2, del Tuir, mentre perde ogni significato se trasportato nel campo previdenziale. Qui infatti il concetto di “residenza” non rileva, sicché, secondo i giudici di legittimità, si determinerebbe una disparità di trattamento, ingiustificata ai fini previdenziali, tra i lavoratori assoggettati al regime previdenziale italiano che soggiornano all’estero per periodi inferiori o superiori a quello indicato. Il richiamo dei giudici alla residenza, tuttavia, pare inconferente in quanto la disposizione dell’articolo 51, comma 8-bis, con riferimento ai 183 giorni nulla ha a che vedere con le disposizioni dell’articolo 2 sulla residenza fiscale, anzi, l’applicazione stessa delle retribuzioni convenzionali dà per scontata la sussistenza della residenza fiscale italiana del lavoratore.

Inoltre, secondo i giudici di legittimità, ritenere la disposizione operante ai fini previdenziali determinerebbe un’ingiustificata compressione delle entrate pubbliche, a detrimento anche della posizione previdenziale del lavoratore.

Più convincenti e solide invece sembrano le argomentazioni addotte dalla Cassazione in ambito previdenziale laddove la sentenza chiarisce che qualora vi siano accordi che consentano il mantenimento della copertura assicurativa in Italia (come nel caso degli Stati Uniti oggetto della sentenza), in deroga al principio del criterio della territorialità, i datori di lavoro, che continueranno a versare i contributi previdenziali in Italia, devono assumere come parametro per la determinazione della base imponibile le retribuzioni effettive corrisposte ai lavoratori all’estero, cui sono correlativamente commisurate, nelle forme e nei modi previsti, le prestazioni dovute, in quanto, si può aggiungere, è di fatto scongiurato, proprio grazie alla presenza della Convenzione, il rischio di doppia contribuzione, almeno per le voci contributive più rilevanti.

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La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 25 luglio 2016, n. 15327, ha stabilito che è tenuto a pagare i contributi alla Gestione commercianti l’amministratore delegato dell’azienda che ha un ruolo predominante nella gestione, occupandosi in maniera abituale e prevalente della commercializzazione dei prodotti.

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